di Marco Ticozzi
Grazia Cucco è bravissima.
Affermazione apodittica che par troppo semplice, ma davanti alla moltitudine di abilità, emozioni, ispirazioni e storie che animano Grazia, questo sembra il giusto incipit e allo stesso tempo la conclusione di ogni viaggio che l’osservatore fa in ogni sua opera.
E la moltitudine di Grazia vuol dire contraddizione, gioco, dramma, ironia, purezza e trasgressione.
Grazia potrebbe essere allo stesso tempo Puck nel “Sogno di una notte di mezza estate” e Shakespeare stesso quando trasforma gli uomini in animali, la regina delle fate della grande illustrazione inglese o, ancora, un dispettoso Kafka che al contrario tramuta gli insetti in umani, crudeli e addolorati, vittime e carnefici, devoti e dissacranti.
Ma in verità lei è un folletto che attraversa con la sua opera l’immaginario infantile e gli ardori adolescenziali che albergano in ognuno di noi, muovendoli col registro dello stupore e della provocazione.
Dotata, “nomen omen”, di una grazia innata ma aggressiva, che l’ha fatta passare dall’essere capace autodidatta a pervicace discepolo – per arrivare a quella grande maestria come pittrice che solo il suo nerbo avrebbe potuto ottenere –, l’artista racconta in ogni opera una storia che ci trascina al di dentro del quadro con un realismo di meravigliosa fattura. Dettagli e figure dipinte con la punta di un “pennello di 3 peli”, campiture vaste di cieli, acque e terra, architetture con precise prospettive – che divergono tra loro quando fanno da fondale a scene concomitanti ma dissonanti –, attentissima raffigurazione della natura, senso della narrazione.
Osservando i suoi quadri, avvertiamo che i “surrealismi” della pittura antica e del novecento sono stati “respirati” – e non riprodotti – da Grazia, che li declina nella contemporaneità semplicemente perché “lei è così”.
Con lei, da una percezione di giocosa e fatata serenità, entriamo in una scena di grande miniatura dove le fate cedono il passo al surrealismo di animali e uomini mutanti, al particolare sorprendente e “provocante”, come se potessimo dire che in questo caso “il diavolo sta nei dettagli”.
Eppure tutto muove un religioso e infantile amore per la natura e per la sua sempre contaminata purezza, in dialogo e contrapposizione con un mondo adulto e di potere che, mentre reprime, solletica energia e passione.
Il contrasto fra natura e uomo, tra sacro e profano, tra religiosi e religione, svela un immane senso del Sacro – guascone nell’espressione, ma profondo e buono – che più volte l’ha fatta affermare di aver ringraziato Dio per averle concesso di saper dipingere così bene.
La perizia di pittrice si sposa con l’incontenibile ispirazione, ma trova nel supporto spesso cercato per le opere – frammenti di antichi mobili da abitazioni e chiese – il radicamento alla sua terra e il ricordo della sua storia.
Come a voler partire dalle fondamenta per narrare vicende – anche drammatiche – che solo l’occhio distaccato dell’artista alla fine può assolvere con la pittura e con il suo sorriso, la sua risata canzonatoria.
Un’ironia fatta con spudorata purezza, inesorabile davvero, tanto da far immaginare a chi scrive di essere da lei subito trasformato in un ranocchio giallo e verde, che gracida in un suo quadro.